Quanto è buono il sushi! Tutti coloro che amano la cucina orientale (a proposito, vi interessa un corso sulla cucina e cultura giapponese?) hanno assaggiato almeno una volta il sushi, ma quanti di loro si sono chiesti: “Come ci è finito il salmone nel sushi”?
Nei menu di quasi tutti i ristoranti giapponesi troviamo piatti come “sashimi di salmone”, “uramaki con salmone” o “tartare di salmone”, ma come è possibile che un pesce allevato e pescato in Norvegia, Scozia, Canada, Alaska e Islanda sia finito sulle tavole nipponiche?
In questo articolo leggerete dell’arte del sushi e la curiosa storia di come il salmone è diventato un ingrediente importante del sushi.
L’arte del sushi
Il sushi è un’arte e, se avete mai guardato un video di Chef Hiro sicuramente ne siete rimasti affascinati anche voi.
Questo perché il sushi è caratterizzato da ottimi ingredienti, tecnica centenaria e tradizione. Tutti elementi che, combinati insieme, rendono questo piatto sempre squisito e al passo coi tempi.
Gli ingredienti
Il sushi è l’unione di un prodotto del mare e 5 ingredienti, che non cambiano mai: riso, alga nori, sale, zucchero e aceto di riso. In Giappone i bocconi di riso glutinoso sono accompagnati da innumerevoli varietà di pesce: parliamo di tonno, anguilla, uova di pesce, ventresca, orata, branzino, ma anche calamari e gamberi.
Il maestro
I cuochi specializzati nella preparazione del sushi si chiamano “Maestri”: cucinano unendo ricette centenarie e intuizioni moderne e vivaci, coniugando il tutto a una tecnica perfetta che hanno imparato in anni di praticantato.
La tradizione
Tradizione vuole che il sushi si mangi con gli “hashi”, le bacchette laccate e decorate che rendono le tavole giapponesi così caratteristiche.
Dunque, il sushi è culinaria a base di riso, alga nori e una varietà di pesce tipica dei mari che circondano il Giappone, quindi come ci è finito il salmone nel sushi?
Come ci è finito il salmone nel sushi?
Il salmone nel sushi ci è finito in modo del tutto particolare: colpa dei norvegesi!
Fino a 30 anni fa il sushi non prevedeva assolutamente l’uso del salmone crudo, ritenuto pieno di batteri, puzzolente e troppo grasso. Era il 1970 e il Giappone non importava nessun prodotto dall’estero né, tantomeno, il pesce dall’Occidente. Negli stessi anni la Norvegia allevava e pescava troppo salmone rispetto alle reali necessità del paese; la soluzione sembrava ovvia: vendere il pescato in eccesso al Giappone.
L’impresa risultò più ardua del previsto. Bjorn Eirik Olsen diede vita al “Project Japan”, una strategia di marketing volta a convincere il Giappone della bontà del salmone norvegese, prima sfruttando una sorta di primordiale influencer marketing: vip e star venivano pagati per mangiare sushi con salmone crudo e mostrarsi in televisione. Una mossa che non solo non convinse i cultori del sushi, ma che portò al crollo del valore del salmone.
La mossa successiva fu quella di vendere 5 milioni di tonnellate di salmone a una catena di supermercati, chiedendo che il prodotto venisse posizionato nel modo più visibile possibile.
Furono necessari diversi anni perché il Giappone si aprisse a un nuovo ingrediente, importato e non appartenente alla fauna del territorio, ma la qualità del salmone norvegese era indiscussa e il connubio tra un pesce occidentale e la preparazione del riso orientale era talmente buono da conquistare le papille gustative di entrambi i popoli.
di Sofia Pettorelli